“Tutti noi abbiamo una storia da raccontare ma non sempre scegliamo di farlo, la storia che inevitabilmente non possiamo evitare di raccontare è quella che narra il nostro corpo”.
Alessandra Lemma
Provocarti un danno fisico o un dolore ti induce una sensazione positiva?
Ti è mai successo di ferirti per ottenere un sollievo da una situazione o da uno stato d’animo negativi? Hai mai pensato che l’autolesionismo potesse essere l’unica via per risolvere una difficoltà nelle relazioni con gli altri?
Tagliarsi non è un disturbo mentale ma piuttosto un segno, un sintomo che accompagna una sofferenza mentale.
L’autolesionismo consiste nell’infliggersi intenzionalmente un danno al corpo per causare sanguinamento, lividi o dolore; ad esempio, tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi o strofinandosi eccessivamente con l’obiettivo di causare segni superficiali.
Un po’ di storia
Nella storia i segni sulla pelle sono stati usati come pratica nei riti iniziatici e di passaggio, ma anche per consolidare dei rapporti, per mostrare il proprio coraggio e per guarire il corpo malato o la stessa psiche.
La modificazione corporea poteva avvenire in svariati modi: limatura dei denti, circoncisione, amputazioni etc.; tutt’oggi alcune culture contemplano queste forme di autolesionismo.
I segni sulla pelle non hanno un unico significato valido per tutti e non sempre sono considerati sintomo di patologia, per interpretarli è necessario quindi considerare il contesto culturale in cui si verificano.
Adolescenti ed autolesionismo: il caso di Laura
L’adolescenza è una fase di sviluppo che segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta ed è un momento critico perché caratterizzato da cambiamenti che riguardano il corpo, la mente ed i comportamenti.
Se pensiamo alla nostra adolescenza affiorano alla mente immagini, sensazioni, emozioni: quanti pianti per le delusioni d’amore o per un amico che aveva tradito la nostra fiducia! Quanta rabbia verso i genitori o gli insegnanti da cui non ci sentivamo capiti o accettati.
Si tratta di un periodo molto delicato e non privo di problematiche che si possono manifestare con varie forme di disagio; l’autolesionismo è una di queste e si sta diffondendo in maniera sempre più allarmante.
Laura ha 22 anni, vive con la madre ed il fratello maggiore.
I genitori si sono separati quando lei aveva 14 anni, nel corso di quell’anno Laura è stata bocciata al liceo perché a causa del divorzio nulla aveva più senso, tanto meno andare a scuola!
La madre è molto permissiva, il padre viene descritto come severo e molto pretenzioso.
“Mi sembra che tutto sia iniziato in quel periodo, sentivo una sorta di disagio, di malinconia, di vuoto. Il rapporto con i miei genitori non era dei migliori: non mi sentivo capita né accettata, nessuno mi aveva chiesto come stavo. Poi per altri motivi non andava: amicizie, amori e altre cose, stavo male e mi sentivo quasi sempre triste; mi ricordo ancora il primo taglio che mi feci sul braccio, con una lametta presa a papà e inaspettatamente mi sentii subito meglio, ma soprattutto finalmente sentivo qualcosa!”.
L’autolesionismo è caratterizzato dall’espressione acuta di un disagio che si manifesta con un’aggressione verso il proprio corpo, quasi che la sofferenza fisica sia percepita come più facile da sopportare rispetto a quella emotiva.
Il corpo assume diventa una valvola di sfogo mediante cui espellere tutte quelle sensazioni spiacevoli, come se l’unico modo di far tacere le emozioni negative e di sentirsi vivi fosse farsi del male.
Ma il taglio o altre forme di autolesionismo, possono fungere anche da anestetico: il dolore fisico dà forma e allo stesso tempo limita il dolore mentale, in questo senso è usato quasi come un antidolorifico; con il taglio si fissa il dolore sul corpo e la sofferenza mentale viene bloccata.
Laura nel corso dei colloqui racconta come si svalutava ed era fortemente autocritica: “Mi sentivo una buona a nulla, farsi bocciare al primo anno delle superiori mi sembrava proprio da stupidi ignoranti! Non ero capace nemmeno di essere simpatica agli occhi dei miei compagni. Non sapevo chi fossi: c’erano le altre ragazzine vestite alla moda, c’erano quelle che approcciavano con i maschi, quelle fissate con lo sport e poi c’ero io, senza un ragazzo, senza una passione!
Spesso l’autolesività è associata a difficoltà interpersonali o sensazioni e pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio, autocritica che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
Inoltre, durante l’adolescenza, i giovani cercano di stabilire un’identità sociale e personale: demarcano il loro corpo come proprio e cercano di definire chi sono.
Laura racconta che ben presto si è trovata a tagliarsi con maggior frequenza e in svariate parti del corpo, il tempo che trascorreva tra un taglio o una lesione e l’altra diminuiva sempre di più, “è come una droga, ne diventi dipendente, la sensazione di benessere provata successivamente era troppo liberatoria e quindi ne volevo provare ancora”.
L’autolesionismo può portare la persona a sperimentare una sorta di dipendenza dal comportamento stesso: il sollievo ottenuto porta a compiere ripetutamente il gesto.
Quando chiesi a Laura che rapporto avesse con le sue emozioni, mi rispose: “Non le esprimo, le trattengo. Quando sono triste mi sdraio sul letto, a pancia in giù e non voglio parlare con nessuno. Quando sono arrabbiata mi chiudo e metto il muso”.
Fin dai primi incontri emerge la sua estrema difficoltà a riconoscere, distinguere e vivere in modo consono e diversificato le emozioni, le ferite erano il mezzo per esprimere tali sentimenti non esprimibili a parole.
In generale i segni sulla pelle hanno una duplice funzione: mostrare e nascondere.
Nel caso di Laura le ferite venivano nascoste ai genitori ma in altri casi possono essere fieramente mostrate, i segni sulla pelle infatti possono essere:
- un messaggio per il mondo: comunicano in maniera potente che qualcosa non va. Esattamente come alcune persone assumono sostanze o alcol nel tentativo di curare il proprio dolore psichico, altre fanno lo stesso modificando il loro corpo.
- un tentativo di infliggere dolore negli altri: esponendo l’altro al corpo sfigurato si cerca di punirlo o ferirlo, il corpo diventa una prova del danno che è stato fatto alla persona che in qualche modo voleva essere vista. I segni sulla pelle sono un modo per mostrare il caos interno e la rabbia.
Laura al momento non ha interrotto i suoi comportamenti autolesivi ma li ha ridotti drasticamente, il tempo che intercorre tra un taglio e l’altro è aumentato e le ferite fisiche si presentano solo di fronte ad eventi particolarmente dolorosi.
Con Laura i colloqui sono focalizzati sulla sua sofferenza interna e sulla possibilità di dare un nome alle emozioni provate, si sta lavorando nella direzione di poter individuare delle modalità altre di espressione dei propri stati interni, siamo solo all’inizio di un lungo cammino!
Autolesionismo: SOS Genitori
Proprio perché i ragazzi tendono per la maggior parte a nascondere i segni autoinflitti, per il genitore può essere difficile accorgersene precocemente.
Ci possono però essere degli indicatori che possono mettervi in guardia per capire se i vostri figli stanno praticando l’autolesionismo:
- vestiti non appropriati alla stagione: indossare esclusivamente magliette con le maniche lunghe in piena estate, tendenza a coprire i segni delle ferite con molti bracciali.
- frequenti macchie di sangue sui vestiti;
- ferite, lividi o tagli non spiegati;
- possesso di oggetti taglienti. rasoi, lamette, forbici, coltellini, aghi, pezzi di vetro;
- isolamento: ad esempio passare molto tempo in bagno da soli;
- irritabilità;
- difficoltà nel fronteggiare emozioni forti;
- rabbia eccessiva o umore depresso;
- mancanza di legami sociali;
- disegni, scritti e altro che hanno per tema il dolore, la tristezza, il ferirsi.
Per i genitori è uno shock accorgersi del comportamento autolesionista del figlio, spesso portano le foto di ciò che trovano nella stanza o nel bagno e delle parti del corpo del figlio: “guardi cosa si è fatto?”, “perché si fa questo?” e soprattutto domandano: “cosa posso fare?”.
Bisogna innanzitutto capire perché lo fanno, mostrarsi disponibili al dialogo: far parlare i propri figli e farsi raccontare da quando hanno iniziato, perché e come si sentono; se i ragazzi capiscono che non siete delusi, che non siete arrabbiati, si sentiranno meno in colpa.
L’accoglienza e l’apertura dei genitori in questo senso aiuterà i ragazzi ad aprirsi: se sanno di avere davanti un adulto disposto ad ascoltare il loro dolore, qualsiasi forma esso abbia, saranno più propensi a raccontarlo.
È fondamentale poi richiedere una consulenza psicologica.
Come possiamo esserti di aiuto?
Partiamo dal presupposto che chi si autoinfligge un dolore o un danno, probabilmente sta mettendo in atto l’unica strategia che conosce per attraversare il momento di grave difficoltà emotiva nel quale si trova.
È fondamentale che lo psicologo si sintonizzi sul dolore emotivo del paziente piuttosto che su quello fisico, per fare questo in primo luogo è necessario creare una relazione improntata sulla fiducia, comprensione e sicurezza; questo primo obiettivo permette non solo di riconoscere il suo dolore interno ma anche di rassicurare che non sarà solo/a ad affrontarlo.
Attraverso una presa in carico di tipo psicodinamico è possibile comprendere il malessere che la persona sta vivendo, concentrandosi sull’espressione verbale delle emozioni, sulla comprensione del significato e del bisogno profondo che si cela dietro tale comportamento.
In secondo luogo, è importante aiutare il soggetto a cercare strategie comunicative diverse e funzionali e modalità più sane di gestione delle emozioni negative.
Ricordiamo che nei casi più gravi può essere necessaria una terapia farmacologica per contenere gli stati emotivi sregolati e l’impulsività.
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